Da Darwin a Freud: Il Panico nella Giungla della Società Contemporanea

Una delle questioni più controverse e che in passato rendeva difficile l’approdo allo studio di uno psicologo è la ripercussione somatica del disagio psichico. Il passaggio invece fondamentale che ad oggi ha ribaltato la percezione pubblica e ridato pari dignità al malessere emotivo è la scoperta che non solo il nostro corpo influenza il nostro stato mentale, ma anche lo stato mentale  influenza il nostro corpo. Insomma, finalmente la mente se la gioca alla pari con il corpo.

La condizione in cui tale nesso associativo è massimamente evidente è l’ansia, il mantra del nostro momento storico, la parola più trasversale e più abusata dal mondo occidentale attuale che vive nel vortice della fretta da se stesso generato, che è tornato a vivere correndo come facevano i primitivi al culmine dell’evoluzione darwiniana, non più scappando di fronte ad un leone come i nostri antenati ma davanti alle incombenze ugualmente spaventose da noi stessi determinate. Siamo la società del paradosso quindi, senza offesa per nessuno, e abbiamo l’ansia. Abbiamo fretta, abbiamo affanno, abbiamo paura di sbagliare, alla fine abbiamo anche paura di avere paura, e lì ci blocchiamo incastriamo e incasiniamo.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha definito il disturbo da panico, questa moderna categoria diagnostica, come la più importante patologia esistente che colpisce il 20% della popolazione, nonostante coinvolga la più arcaica delle emozioni, la paura. Da un punto di vista nosografico, ossia di classificazione dei disturbi psicologici e psichiatrici, l’attacco di panico rientra nella categoria dei disturbi d’ansia rappresentandone la massima espressione. Nel nostro ragionamento sulla questione dell’ansia, ai fini di comprenderla, dobbiamo sottolineare come essa sia, a sua volta, una risposta fisiologica di attacco-fuga  agli stimoli stressogeni interni o esterni indotti dalla giungla occidentale, e come agisca acuendosi esponenzialmente con l’elevarsi della percezione di minaccia individuale indotta dalle pressioni che avvertiamo, trasformandosi infine da prezioso meccanismo salvavita in annichilente sensazione di perdita di controllo. Succede quindi che la paura, ovvero una preziosa risorsa emotiva geneticamente predisposta ad allertare l’organismo di fronte a situazioni pericolose, al di sopra del limite naturale di attivazione dell’ansia “buona”, “prestazionale”, diventi patologica, avvolgendo la persona in un circolo vizioso che crea e mantiene la paura stessa, ingigantendola.

Gli studi sulla neurofisiologia del panico evidenziano due processi fondamentali che si realizzano durante un attacco di panico: da una parte la percezione fobica coinvolge il sistema limbico (amigdala, ippocampo, ipotalamo), che reagisce in millesimi di secondo veicolando immediatamente alla periferia una risposta, facendo attivare la reazione di “attacco o fuga”, cui attualmente si è aggiunto il “freezing” (“congelamento”) grazie alla stimolazione del sistema nervoso autonomo. In successione, la sensazione arriva poi alla neocorteccia, che è deputata alla valutazione cosciente degli stimoli esterni e modula i comportamenti volontari. Il problema emerge quando la mente dell’uomo evoluto, noi, la cosiddetta corteccia, confonde il sano meccanismo descritto sopra con qualcosa di pericoloso, realizzandosi fuori del suo controllo, e ciò che comincia a spaventare di più diviene la reazione di perdita di controllo della persona stessa, che porta la ragione a cercare di ripristinare il perduto controllo, ma più quest’ultima cerca di tenere salde le sue stesse redini, più le perde, in un circolo vizioso che sfocia nel tilt fisiologico dell’attacco di panico, ovvero la paura di provare paura.

In questi momenti apicali, tendiamo a preferire comportamenti di evitamento o fuga da situazioni/stimoli potenzialmente pericolosi, magari efficaci sul momento ma non risolutivi della radice emotiva del nostro problema, ovvero del nostro leone, così come fallimentari risulteranno i tentativi di tenere sotto controllo le nostre reazioni fisiologiche proprio nei momenti di maggiore alterazione, ingovernabili.

La persona che soffre di questi meccanismi psicologici passa molto tempo a pensare alla paura, a quanto provarla sia spaventoso e alla possibilità di poterla esperire nuovamente nelle più svariate situazioni e luoghi. L’esito di questa ruminazione mentale è però che porterà verosimilmente soltanto ad ingigantire i pensieri connessi alla paura e quindi a percepirla molto più spaventosa ed ingestibile di quanto non possa essere nella realtà. Considerando poi che, come descritto nel funzionamento della risposta mentale allo stimolo, emozioni e pensieri sono connessi, ne deriviamo che pensieri negativi elicitano a loro volta emozioni negative: passando molto del proprio tempo a coltivare pensieri negativi, finiremo anche per esperire molte più emozioni negative. Si inizia così a pensare in automatico alla paura, a quanto sarebbe brutto provarla e si finisce in questo modo per indurla come automatismo e non più di fronte al nostro caro leone, ovvero inciampando nel meccanismo inconscio della profezia che si autoavvera.

La persona che soffre di attacchi di panico passa anche molto tempo a controllare il proprio corpo, all’interno, come a volerne fare una radiografia, ricercando le temute avvisaglie di un nuovo attacco. Se siamo ansiosi, infatti, aumentiamo il ritmo dei battiti cardiaci, aumentiamo il ritmo e la profondità della respirazione (iperventilazione), i muscoli si irrigidiscono, la pelle diventa fredda e sudiamo. Stando a quanto premesso, tutto ciò che determina queste modificazioni fisiche determina anche ansia e tutto ciò che riduce queste modificazioni, riduce anche l’ansia. Se quindi rilassiamo volontariamente i muscoli e controlliamo la respirazione, rallentandola, possiamo ridurre e controllare l’episodio ansioso. In altri termini, se mettiamo volontariamente il nostro corpo nello stato in cui si trova quando si è sereni e rilassati, automaticamente riduciamo lo stato d’ansia.

Per avere massima efficacia, al di là dell’immediata gestione della componente somatica durante gli attacchi, la terapia dell’ansia e del panico non deve mirare soltanto a circoscrivere e ridurre il mero episodio acuto, ma deve azzardare e spingersi più in là, nella giungla,  sino a guardare in faccia il leone, sino ad affrontare e comprendere le nostre più recondite paure. È ormai stato abbondantemente dimostrato che la terapia psicologica ha dei correlati neurali, a livello dei circuiti e dei neurotrasmettitori cerebrali. Finora queste evidenze di connessioni tra lo psichico e il biologico erano emerse per le tecniche di rilassamento e la psicoterapia cognitivo-comportamentale, ma la grande novità è che cominciano ad emergere anche da studi relativi all’applicazione in tale senso della psicoterapia psicodinamica: le conferme delle basi biologiche di psicoterapie e trattamenti psicodinamici continuano ad accumularsi e sono ormai alcune decine gli studi clinici controllati che lo testimoniano.

La psicoterapia dinamica presuppone che il comportamento sia plasmato dalle passate esperienze, da determinanti genetiche e dalla situazione del momento, riconoscendo il significativo affettivo esercitato sulla psiche dalle nostre motivazioni. La psicologia dinamica è basata sul concetto di conflitto, di inconscio, di trauma e di blocco e fa riferimento alla teoria psicoanalitica. Comunemente siamo abituati a chiamarla col nome del suo fondatore, la terapia freudiana, ma la verità è che oggi anche la psicoanalisi ha subito una naturale evoluzione che l’ha portata a rivedere alcuni dei suoi tratti distintivi, a favore di una conformazione più aderente al contesto contemporaneo: non più le decennali e proibitive quattro sedute a settimana sul lettino, ma trattamenti di uno o due anni e analisi meno profonde, meno complesse a volte, ma che tornano a puntare sulla capacità di adattamento a un contesto fondato tanto sulla velocità quanto sulle incertezze, affiancando all’indagine sul passato una spinta a supporto del presente. Oggi, psicoanalisi, psicologia cognitiva e neuroscienze convergono nel dimostrare l’importanza dei meccanismi inconsci che, come pensava il padre della psicoanalisi, connettono psiche (pensiero) e cervello (organo). La terapia della parola si traduce allora in segnale neurochimico, purché fatta bene e in modo incisivo, sia chiaro: come un farmaco tocca e cambia certe aree cerebrali quali la corteccia orbitale o il metabolismo del cortisolo.

 

Dr.ssa Giulia Galimberti

Psicologa clinica

Psicoterapeuta psicoanalitica

Referente del Servizio di Psicologia e Psicoterapia

 

Bibliografia:

“Imparare a controllare l’ansia” P. Spagnulo, M. Falcone, Che l’ansia voli via, ©1999 Ecomind Publications, www.ecomind.it

“La paura della paura: cos’è, come funziona, e come superarla” 25 febbraio 2018/ Dott.ssa Monia Ferretti – lopsicologoonline.it

“La paura della paura: la terapia degli attacchi di panico” Dott.ssa Elisa Balbi, Centro di terapia strategica

La terapia degli attacchi di panico”, Nardone, G. (2016). Milano: Ponte alle Grazie. Organizzazione Mondiale della Sanità (2002). Classificazione Internazionale del funzionamento, della disabilità e della salute. Gardolo: Edizioni Erikson

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